Avete presente gli specchi deformanti? Quelli davanti ai quali passavamo una buona mezz’ora alle fiere a fare facce buffe e a dire, ridendo, che quei tipi alti a dismisura, bassissimi, ciccioni, con la testa e gli arti deformati e ondulati non eravamo noi, pur essendo consapevoli del contrario. Ecco, Avatar: The Way of Water è esattamente così. Solo che qui non ci viene affatto da ridere. Certo, quella che ci restituisce il nuovo film di James Cameron non è sicuramente una raffigurazione brutta o strana a vedersi, ma la sostanza di fondo non cambia. Dopo più di 10 anni d’attesa, ritrovarsi davanti ad un’immagine riflessa del primo lungometraggio, diversa eppure uguale, è abbastanza deludente.

Sembra diverso, ma non lo è
Sono trascorsi più di dieci anni da quando gli umani sono stati cacciati da Pandora. Jake Sully e la sua compagna Neytiri vivono pacificamente crescendo i loro figli, ma l’idilliaco clima di quiete non è destinato a durare a lungo. Nuovi colonizzatori e avatar giungono dal pianeta natale dell’ex marine, e questa volta sono disposti ad usare ogni mezzo necessario per impadronirsi delle risorse naturali. Lo scontro si sposterà nelle isole dei vasti e cristallini mari di Pandora, dove vivono numerose tribù che hanno fatto dell’acqua la loro casa.
Cameron ci porta a scoprire nuovi volti del pianeta, dei personaggi e delle dinamiche relazionali, ma attenzione: non fatevi trarre in inganno. Se l’intento era quello di rendere la visione un tuffo nel passato, l’obiettivo è stato pienamente raggiunto. Con una trama leggermente più articolata, questo secondo capitolo di Avatar punta molto sulla componente nostalgica e affettiva del vecchio spettatore, riproponendo diverse situazioni e alcune tematiche trattate in maniera analoga al precedente film. Stupisce la mancanza di idee originali in grado di rendere il prodotto differente da una semplice copia carbone della precedente pellicola, così come l’uso ripetuto dei medesimi espedienti narrativi. Persino la colonna sonora e alcuni spezzoni di dialogo risultano essere praticamente gli stessi.
Tsaheylu
La famiglia è il perno centrale attorno al quale ruota l’intera pellicola. Un legame intenso, non solo di sangue e a volte anche inaspettato, ma che si è disposti a proteggere con ogni mezzo o azione necessaria. Analizzando le dinamiche relazionali che intercorrono tra vecchi e nuovi personaggi, si lascia a questi ultimi maggiore possibilità di esprimersi.

Spicca fra tutti Kiri, che vede il ritorno di Sigourney Weaver nel franchise di Avatar dopo la morte del suo personaggio nel precedente film. Un’interpretazione genuina e sensibile, che permette di entrare sin da subito in empatia con l’adolescente Na’vi. La trama costruita intorno a lei risulta essere la più affascinante tra le varie linee narrative portate avanti nel corso del racconto, aggiungendo una punta di mistero sul futuro del personaggio. Splendida anche l’interpretazione di Zoe Saldana nei panni di Neytiri, che nonostante una presenza ridotta in termini di minutaggio rispetto al passato, riconferma la sua capacità di saper dar vita ad una protagonista incredibilmente umana, potente, vera.
Il mondo sottomarino di Pandora
Avatar non è certo entrato nella storia del cinema per puro caso. La rivoluzione tecnica portata da Cameron nel 2009 con il primo film, raggiunge vette ancora più spettacolari con questa seconda pellicola. Il nuovo ambiente marittimo viene costruito e illustrato fin nel più piccolo dettaglio, dando vita a sequenze di una bellezza visiva mozzafiato. Nell’arco centrale del film si ha quasi la sensazione di essere di fronte ad un documentario sulla flora e la fauna marittime di Pandora, dettaglio che inevitabilmente crea una sorta di parziale interruzione nello svolgimento della trama. Decisamente apprezzabile anche il design delle popolazioni indigene delle isole, la cui conformazione dei corpi si adatta ad una vita trascorsa per buona parte del tempo in acqua, lontano dalla terraferma e dalle rigogliose foreste del pianeta.

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No, non abbiamo improvvisamente abbandonato l’universo cinematografico di Avatar. Se siete preoccupati che possano apparire dei russi in tuta da ginnastica e che incomincino a dare la caccia ad un arciere vestito di viola e alla sua aspirante allieva, tranquilli, non accadrà. Anche se mancano pochi giorni a Natale. L’espressione, che è quasi un intercalare, usata dai figli di Jake, potrebbe far ridere alcuni, far storcere il naso ad altri e far sanguinare le orecchie ai più delicati (o forse a tutti a lungo andare). L’impressione è, per cercare di essere gentili, che quattro vecchi barbogi si siano seduti attorno ad un tavolo e abbiano cercato di svelare i “profondi” misteri del linguaggio giovanile e che siano approdati a questa brillante soluzione. Ma qui non siamo a New York, bensì su un pianeta alieno, in una cultura di stampo tribale. E se proprio si dovesse rivelare un’espressione così indispensabile, basterebbe convertirla in Na’vi. E dire che dopo aver inventato un intero linguaggio, ideare una sola parola non avrebbe dovuto essere così complicato.
Voto: 7.5
Spazio all’autore

Che dire, sono un po’ delusa. Un film con un comparto tecnico e visivo a dir poco perfetto, che però non riesce a staccarsi dal grembo che l’ha generato e a spiccare il volo, assumendo una propria identità. Ancora un volta una dimostrazione del fatto che a Hollywood le idee originali scarseggino, e che si provi timore nello sperimentare qualcosa di nuovo.